Mancanza

Un altare per la madre

 

 

 

Ph.Antonella Aresta

 

 

 

 

“L’unica, definitiva eccezione è la morte: la morte che entra in casa tua ti impedisce di guidare la vita, di indirizzarla contro chi vuoi, ti obbliga a fermarti. Se è entrata in casa tua la morte, può entrare anche il tuo nemico, sicuro che non sarà offeso. C’è qualcosa di strano in questo pensiero, qualcosa di poco chiaro. È come se …come se la verità vera fosse l’esatto contrario della verità apparente. Si crede che la morte sia uccisione e lotta. Invece la morte è una tregua in quella lotta a sangue che è la vita: in quella tregua uno può guardarsi intorno, e finalmente capisce.”p.87

Continuare a leggere è una strada di libertà femminile, è un pellegrinaggio continuo che apre possibilità di esistenza. Smettendo di essere figlia, appartengo alla generazione che progetta paradossalmente a lunga scadenza, intuendo che tanto futuro non potrà esserci e decidendo di “starci lo stesso” (Luisa Muraro), di sentire, di pensare e di scegliere attraverso e non nonostante l’esperienza di morte che tocca a ogni vivente.

 Un altare per la madre di Ferdinando Camon è, in assoluto, il libro di formazione all’autonomia e alla libertà della vita umana. E, dunque, ci invita a ragionare intorno alla finitudine. È umano sentire la morte come un’ingiustizia, come un affronto, come un “segreto vergognoso” (Simone de Beauvoir, lo dice anche della vecchiaia). La morte è un evento irreparabile della vita.

Non elaboriamo la mancanza, non la curiamo come una malattia, “quel che manca non si può contare” (Qoelet). Apprendere e godere l’assenza significa che “è tempo di trovare tempo” (Qoelet), per riconoscere le origini della vita, nel desiderio di amore e di libertà. Rimanendo nella mancanza, riaffiorano parole, battute, cipigli, gesti: “… è che per cucinare serve amore e pazienza…”; “sei diventata senza Christ”; “sei cocciuta, senza sentimenti”; “sei forte, certe cose capitano a chi le può sopportare”; “tieni un brutto carattere”.

Accolgo, così, la bienveillance verso me stessa, parola che mi suggerisce una persona cara. La bienveillance non è solo la benevolenza generica per sé; è sorvegliarsi nel contesto, è assistere la propria crescita in relazione, provvedere alla custodia e alla risoluzione del copione psicologico personale nelle parti che non ci servono più e ci rendono infelici.

La mancanza ci nutre divenendo parte della vita e offrendo una ragione per cui valga la pena faticare, gioire, pensare. La mancanza rimane e diviene occasione per lavorare sul limite che valuto come la causa maggiore della tendenza al dominio, nel modello sociale e politico diffuso, insinuoso e manipolativo.

I processi di invecchiamento sono molteplici e diversi, per ogni essere umano. Ricordare in ebraico è zakhòr, verbo che chiede la fatica della profondità, la coscienza del sottosuolo. L’umano si costruisce nella mancanza e nella memoria: zakhòr è l’imperativo del ricordo, rimanda al lavoro di autocoscienza, perché siamo piante con le radici e siamo creature perdute, quando vengono meno, come nell’alzheimer.

Nella tradizione simbolica di madre in figlia, oltre l’ordine patriarcale, rimangono le parole di lealtà e di cultura dell’anima, in una genealogia di provenienza prevalentemente femminile e non più marginale. Il conflitto non è risolto né risolvibile, ma non è paralizzante, anzi, diviene quotidianità femminile di ragioni guadagnate in prima persona, a trasformare la tradizione copionale, non più come semplice stratificazione. Intendo il conflitto come trasformazione e non opposizione, come molteplicità e non dualismo.

Quando con la morte tutto è perduto, ciò che rimane è la vita, luminosa nella periferia, nello scarto, nell’avanzo minimo che non è detto sia senza valore. Dalla decomposizione della morte ricomponiamo il progetto di vita, la trasmissione, di madre in figlia, del senso dell’abitare il mondo, in fedeltà al proprio essere donna. Ci interessa il processo avviato, e non si torna indietro; quella energia e quella sapienza non andranno perdute: per le madri, non ci sono altri altari.

 “La morte è tante cose: silenzio di una voce, separazione per sempre, distanza senza fine. L’altare è una voce, è un ponte, è una vicinanza. Ci sono dei modi per vincere la morte, ogni specie vivente ne ha uno, dalla cicala all’uomo. L’uomo ha il mezzo più semplice: non uccidere. Chi non uccide non morirà. La morte è una scelta: basta non sceglierla. È un atto di volontà: basta non volerla. Un uomo è appoggiato al muro, altri uomini gli sparano. Questi hanno scelto la morte e stanno morendo, quello vivrà in eterno. Come è chiaro tutto ciò, e come è strano che occorra la morte per pensarci. Si dice che la morte rovini la vita: al contrario, la salva… Solo la vita che non ignori la morte non si rinnegherà.”p.8

  • Ferdinando Camon, Un altare per la madre, Garzanti, 1978
  • Rivista Approfittare dell’assenza, Ed.Liguori, 2002

 

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