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Memento

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel 1979, a 72 anni, Laudomia Bonanni pubblica Il bambino di pietra. Una nevrosi femminile rimanendo, per più di quarant’anni, un’autrice incompresa e dimenticata, nonostante la convinzione espressa, nel 1949, da Eugenio Montale: questa Laudomia merita veramente di essere tolta dall’ombra. Forse, lentamente, come capita ai profeti, iniziamo a credergli.

Dopo una laurea in lettere e un lavoro nell’editoria, Bonanni insegna nelle scuole elementari e, seguendo le indicazioni del Ministero di Grazia e Giustizia, nell’ ottobre del 1938, assume l’incarico di rappresentare, presso il Tribunale per i minorenni, l’organizzazione delle donne fasciste, in cui attivamente milita. La sensibilità e la competenza verso i temi delle donne, dell’adolescenza, della giovinezza e della maternità rimangono il filo conduttore di tutte le sue opere.

Alla domanda di un giornalista del perché questo libro, Bonanni risponde: È una domanda un po’ strana da fare ad un autore. Evidentemente ho sentito il bisogno di scriverlo. Non è un libro autobiografico come si è creduto un po’ troppo. È autobiografico nella misura in cui lo è un qualsiasi libro di qualsiasi autore. L’ho scritto perché è stato un argomento che mi si è imposto. La protagonista donna è un po’ la protagonista di tutto quello che ho scritto.

La donna del romanzo ha 47 anni e viene invitata dal suo psicanalista a utilizzare la scrittura, in prima persona, come strumento di indagine e di approfondimento. La consultazione clinica, i tranquillanti e gli psicofarmaci vengono sostituiti dallo psichiatra illuminato con un invito paradossale: prova a scrivere. Il lavoro non è l’autoanalisi per mostrarne i risultati, ma predispone all’accoglienza della paura e della paura di esistere per quello che siamo. Solo chi è totalmente privo di fantasia e gl’incoscienti, da una certa età in poi, non hanno paura della vita. (p.20)

Negli eventi narrati, riconosciamo i recessi della mente e i legami con il femminismo storico degli anni ’70. Il bambino di pietra riprende il vissuto e l’esperienza di una generazione di donne vissute in contesti patriarcali, ribellatesi ai ruoli stereotipati, con i corpi che chiedono il piacere, chiamato prima peccato e che ridiscutono la scelta, il caso, l’istinto di non aver messo al mondo almeno un figlio. La scrittura rinomina e ridefinisce i moti dell’anima, rispondendo con la disubbidienza alla punizione e alla sopraffazione. Attraverso il personaggio letterario di Cassandra, riflettiamo sul sesso, sulla maternità, sull’obbedienza, sulla riduzione di sé. Diventiamo donne sapienti, di sapor, perché, ci ricorda l’autrice, dire intellettuali è troppo.

L’irreducibile paura della maternità? Rimozione? Avrò rimosso il bambino da cui ero ossessionata e traumatizzata? Il figlio rimasto inespresso come un feto calcificato? Questo il blocco che ho portato dentro: l’immaginario bambino di pietra? (p.127)

Il controllo che il patriarcato rivendica ancora per consuetudine e, fino a pochi anni fa, anche per legge, è sempre sulla carne, sul movimento, sullo spazio. Il dominio punisce il desiderio di indipendenza, appropriandosi delle libertà dei corpi. Sandrina, la cassandra che porta nel nome il suo copione, è profeta per se stessa e può indicare la strada a tutte noi; la sua voce è significante nel tempo e, rivolgendosi a sé per prima, può giungere fino a noi.

In tutte le epoche storiche, diversamente nominato, è comune, per tutte le donne, lo stress da intossicazione emotiva. Sentirsi devitalizzata, avvertire il sonno incompleto, il risveglio mal lunato, il dubbio di un vizio cardiaco, il senso di derelizione e il mancato desiderio perfino di viaggiare sono, insieme, gli effetti e le cause della pazzia, intesa in senso liberatorio, come l’assentarsi da se stesse. Riconosciamo con la protagonista del romanzo che spesso, il dolore è alla testa ma il male alla psiche (p.16) e che la stanchezza può uccidere (p.74).

Temevo l’indagine dello psicanalista sull’attività sessuale. Il sesso all’origine di ogni nevrosi. Anche la santità un prodotto erotico, figurarsi… magari ti domandano ex abrupto se hai l’orgasmo. Freud almeno dichiarava che la vita amorosa della donna è (era?) avvolta in un’oscurità impenetrabile. Per quanto me ne rimane di letture fatte, per così dire, con un occhio solo: paura di scoprire chissacché. E non mi si parli di rimozione, lì per lì confondo con soppressione (p.16)

Il bambino di pietra è la scultura raffigurante un neonato che dorme, realizzata da un marmista di lapidi e posata nel cimitero. Talvolta, siamo come bambine di pietra introverse, a covare le rivendicazioni e le rinascite. Così, le battute d’arresto, le resistenze, le delusioni, diventano l’occasione di un corpo a corpo con la nevrosi, alterando il confine netto fra lo stato di salute e il disturbo psichico. Franco Basaglia diceva che la follia è una domanda; talvolta, io aggiungo, il malessere psichico è una richiesta che potrebbe essere diversamente formulata. E la ragione della guida psicologica è nella ricerca della domanda adeguata che ogni persona custodisce dentro di sé e rivela un po’ per volta.

Ha ragione Sandra: La felicità non è allegra come la gioia, la gioia è uno stato chiaro leggero, la felicità ha subito un peso (p.73). La nevrosi, è vero, si cura, ma si scrive e si legge perché divenga un transito obbligato di comprensione, una lente di ingrandimento, uno specchio che non combacia con l’immagine che ciascuna ha costruito di sé.

Nell’opera di archeologia del proprio passato, seguendo l’io ansioso che si va riacciambellando nella tana (p.107), è meglio essere sole che in compagnia. È meglio ricordare non esponendoci in trincea, in prima linea, ma attraverso i personaggi letterari ritrovati o inventati. Il disturbo e il dolore psicologico, inizialmente ci escludono e ci isolano perché possiamo, in seguito, includere e prevedere voci plurali.

Il tema della liberazione della donna, in un itinerario di sradicamento dalle convenzioni borghesi, ci intrattiene ancora oggi. La madre di Sandra diviene la figura simbolo del potere e, a chiusura del romanzo, la nipote della protagonista, Amina, rivela la capacità di raccogliere il testimone con il coraggio di tagliare il proprio cordone ombelicale, con atti dimostrativi di nuovi rapporti con l’altro sesso.

Molte scelte politiche riportano le donne a una condizione d’inferiorità legale e culturale e, però, riconosciamo la voce del cambiamento, in ogni periodo storico, attraverso la scrittura liberatoria che consente di rifiutare le virtù donnesche ornamentali, per un conveniente matrimonio, come scrive Sandra.

La scrittura è necessariamente legata alla lettura come la narrazione di sé è direttamente legata all’analisi, all’indagine più o meno profonda, seguendo i tempi di apprendimento di ogni persona. Le riflessioni sul copione personale e sui meccanismi di difesa, sui giochi psicologici prevedono il ricordo e il racconto verbale e/o scritto. Sono d’accordo con Bonanni: in fondo, quando l’equilibrio personale è incrollabile, rivela la staticità, non prevedendo né trasformazioni, né visioni nuove.

L’accoglienza della propria parte periodale nevrotica si esprime nella ricerca tormentata, ben oltre il pudore rispetto alla scostumatezza, termine riportato dall’autrice e che arriva direttamente dalla mia infanzia. E la sessualità, le relazioni, la stessa vita umana gira intorno alla scoperta adolescenziale della possibilità della morte. Sandra ricorda il suo pensiero più crudele di bambina: le persone che sono morte non le amo più, hanno fatto una cosa orribile (p.56)

La costruzione di sé è come un’opera d’arte: Forse l’arte consiste proprio nel non sapere ciò che si riuscirà a fare, ma tentarlo, essere spinti a fare (p.49). Risorgere, in fondo, ogni volta, non è diventare un’altra, ma è rimanere se stesse apprendendo a registrare la realtà e a sintonizzarsi con essa, in modo che gli eventi, i fatti giungano, ormai risolti, a noi.

Considero le parole nell’ultima pagina del libro, la vera benedizione, la forza ritrovata per continuare, come un’opera di protezione, di perdono e di permesso: (E non ho scritto tutto, non si confessa di sé proprio tutto nemmeno a sé stessi.)

Apprezzo lo sforzo che il testo rimanda rispetto all’opera di autocoscienza e ripenso ad un’altra storia, raccontata da Foa e Scaraffia, su due donne, anime nere nella Roma nazista. La promessa che ci scambiamo è di continuare a leggere e a condividere i cammini lunghi, nascosti e ripidi della liberazione delle donne e degli uomini dal potere patriarcale.

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