Ph. Antonella Aresta

Le stanze sono tante

Ph. Antonella Aresta

A pochi giorni dalla cancellazione del reddito di cittadinanza, leggo la notizia, apparentemente minima: dal 31 luglio viene promossa e inaugurata la «stanza dell’ascolto» nell’Ospedale Sant’Anna di Torino, attraverso una convenzione firmata dalla Città della Salute e dalla Federazione Movimento per la vita. È uno spazio per «fornire supporto a donne gestanti che ne abbiano necessità, nell’ambito di un più generale percorso di sostegno durante e dopo la gravidanza alle donne che vivono il momento con difficoltà e che potrebbero quindi prendere in considerazione la scelta dell’interruzione di gravidanza o che addirittura si sentono costrette a ricorrervi per mancanza di aiuti».

Data la genitorialità del progetto, ho buone ragioni per pensare che i volontari, in una struttura finanziata con soldi pubblici, possano utilizzare tecniche manipolatorie per intimidire e soggiogare le donne, alcune confuse, in una situazione di perplessità, fornendo informazioni parziali e alterate sull’aborto. Le riflessioni che propongo riguardano per ogni donna il processo decisionale e di libera valutazione di sé, allontanando le decisioni preconfezionate, moralistiche e ideologiche. Il progetto svaluta e umilia il servizio pubblico dei Consultori, luoghi ad accesso libero e diretto, e rivendica soprattutto un valore simbolico. Infatti, l’Ospedale torinese è il primo presidio sanitario in Italia per numero di parti e in cui si effettua il maggior numero di aborti.

Un po’ per volta, mansuete e distratte, veniamo abituate a rinunciare ai diritti acquisiti, come la rana che solo quando l’acqua è in ebollizione capisce che muore. Quando siamo senza forze, ci rendiamo conto dell’impatto e delle restrizioni sulla nostra pelle. Il modo di agire subdolo ci logora e cancella i limiti del possesso sui nostri corpi e sul diritto di scelta.

L’indignazione rende queste strategie di condizionamento e di sottomissione, perdenti a breve temine. Considero le manipolazioni come passi falsi che si ritorcono prima o poi su chi spudoratamente osa ridurre le libertà conseguite. L’attivismo per i diritti umani degli anni novanta si è dimostrato fragile perché era isolato: anche se molti elettori e politici erano favorevoli ai diritti lgbtq+, ai diritti riproduttivi e alla giustizia razziale, per ciascuno di questi temi venivano costruite campagne separate, senza spiegare che in realtà erano battaglie con molti punti in comune.

Richiamo le parole della saggista statunitense Rebecca Solnit che qualche anno fa scriveva sulla sua pagina facebook, difendendo il diritto all’aborto: “… parafrasando le parole scritte sul Monumento all’olocausto di Boston: Prima vennero a prendere i diritti riproduttivi (Roe contro Wade, 1973) e non importava se non avevate un utero, perché poi sarebbe stata la volta dei matrimoni omosessuali (Obergefell contro Hodges, 2015), del diritto degli adulti consenzienti ad avere rapporti omosessuali tra loro (Lawrence contro Texas, 2003), e poi del diritto al controllo delle nascite (Griswold contro Connecticut, 1965). Non importa se non ce l’hanno con voi, ce l’hanno con tutti noi. Noi significa praticamente chiunque non sia un uomo bianco, cristiano, etero e di destra. Parti politiche alimentano la nascita di un’ampia opposizione e spetta a noi trasformarla nel suo errore fatale.”

Rifletto sul numero delle stanze e, secondo me, meglio che siano almeno dodici: in ognuna, una riflessione, un limite e una spinta, un’ombra e una luce. Mi preoccupo che ogni donna permanga in ognuna delle dodici stanze/orientamenti oppure seduta su ciascuna di dodici sedie/prospettive. Secondo gli insegnamenti analitico-transazionali, per ogni persona, sono attivi i tre Stati dell’Io (l’analisi strutturale si occupa dei contenuti) e sono attive dodici diverse funzioni operative degli Stati dell’Io. Ogni funzione ha ugualmente diritto di parola e di azione ed è un bene che ogni donna giunga al livello di consapevolezza basica. Nella valutazione complessiva che la persona compie in un momento della propria vita, le categorie dell’errore e della colpa, del peccato e della punizione, sono inutili e dannose. I contesti sociali, economici, psicologici fanno la loro parte e fanno la differenza per la scelta finale. Fino all’ultimo vale il ripensamento. E ogni scelta è la scelta in un particolare momento, da registrare e da ripensare, in futuro, senza ingannarci, senza ricattarci, senza boicottarci.

L’orientamento al diritto rispetto all’interruzione volontaria della gravidanza esiste per legge, lo difendiamo e lo intravedo nelle percezioni di sé delle donne più o meno giovani che incontro nella mia professione. Nel viaggio della liberazione, facciamo passi indietro e in avanti, ma la via è scelta rispetto alla volontà legittima di ricorrere all’aborto. La garanzia è la capacità di prevenire la divisione netta fra l’azione giusta e ingiusta, con una formazione personale alla libertà, imparando a custodire la contraddizione, facendo pace con il bene e il male coesistenti.

 

Il lavoro su di sé è raccontato in due testi che mi stanno a cuore più di altri, di due donne diverse e lontane nei linguaggi e nelle esperienze esistenziali: Oriana Fallaci e Annie Ernaux. Il lavoro di autoanalisi, talvolta guidato, è commovente, può essere facilitato in gruppo e segna il percorso di giustizia e di individuazione per ciascuna donna. L’ascolto di sé ha bisogno di tempo per entrare in confidenza con i suoni, gli odori, le visioni, i sapori interiori, avvicinandoci al nucleo esistenziale. Ernaux rilegge la scelta di abortire come una prova e come un sacrificio: perché il desiderio sia onesto deve attraversare la violenza del corpo che, di conseguenza, diviene un luogo di libertà e di passaggio delle generazioni.

 

A pagina 52, il premio Nobel per la letteratura scrive: Aver vissuto una cosa, qualsiasi cosa, conferisce il diritto inalienabile di scriverla. Non ci sono verità inferiori. E se non andassi fino in fondo nel riferire questa esperienza contribuirei a oscurare la realtà delle donne, schierandomi dalla parte della dominazione maschile del mondo.

E a pagina101: Non mi sentivo diversa dalle donne dell’altra sala. Mi sembrava anzi di sapere più di loro proprio per via di quell’assenza. Nei bagni dello studentato avevo partorito allo stesso tempo una vita e una morte. Per la prima volta mi sentivo in una catena di donne attraverso cui passavano le generazioni.

A pagina 104: Ero ebbra di un’intelligenza senza parole.

Nel mondo molto perbenino, Oriana Fallaci pubblicava nel 1975 Lettera a un bambino mai nato e Miriam Mafai ricordò come il testo venne giudicato scandaloso, esibizionista, sgradevole. Solo nel 1993 l’antropologa messicana Marcela Lagarde utilizzò il termine feminicidio. Fallaci parlava invece di donnicidio per identificare le relazioni parassitarie in cui la donna soccombe, in cui viene descritta e trattata come pazza, puttana, come nemica e vittima. Donnicidio segnala anche l’atteggiamento di una sorella verso un’altra sorella, mentre decide forzatamente che c’è il torto da una parte e la ragione dall’altra e non, invece, prospettive e contesti diversi.

Nell’intervista rilasciata a Marina Buttafava, il 6 ottobre 1975, Fallaci ancor più chiarisce: È sofferenza, sì. Lo è dai tempi remoti in cui si formò questa società dove quasi ogni diritto spetta agli uomini e quasi ogni dovere alle donne. Le femministe hanno ragione. Gli uomini, quando parlano di libertà e di giustizia, perfino quando muoiono in nome della libertà e della giustizia, non si rendono conto di riferirsi a una libertà e a una giustizia che riguarda solo in parte le donne. Però, affermando che essere donne è una sofferenza, non intendo dire che è sofferenza e basta. O sofferenza senza scampo. Se sei consapevole di una sofferenza e pronto a batterti per porvi fine, la via d’uscita esiste sempre. Noi donne la intravediamo già, nel buio. Ben per questo essere donne, oggi, è un’avventura esaltante. Ben per questo la protagonista del libro dice al bambino-embrione: «Vorrei che tu fossi una donna… Battersi è molto più bello che vincere».

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