Ph. Fonte Silvia Meo

Le rose rosse (per ogni benservito)

Il rosso è il colore del patire, del sangue e della lotta sociale. Nel 1973, contro lo sfruttamento delle lavoratrici del ricamo, a Santa Caterina Villarmosa, nasce la “Lega delle ricamatrici”, sostenuta da UDI, PCI e CGL. Filippa Rotondo fonda la cooperativa “La rosa rossa” e raccoglie le lavoratrici abili e gioiose nel ricamare l’abbigliamento, i corredi e gli arredi. Ester Rizzo, nel libro Le ricamatrici, racconta una storia di avvilimento, di mortificazione e di ricatto, nella Sicilia degli anni settanta.

Considerando la mia esperienza professionale, dico che risultare perdenti serve ad illuminare le dinamiche dei gruppi sociali, le tensioni politiche del territorio, serve a ricordare gli abusi e a riparlarne. In fondo, riconoscermi perdente, in molte occasioni, ancora oggi, è una spinta a capire, a costituire piccole comunità in cammino.

“A volte nella vita le anime più diverse si incontrano ed è come se avessero condiviso un cammino insieme, come se si conoscessero da sempre” (Rizzo, p.53)

Non siamo escluse dal mondo professionale e lavorativo, siamo visibili e ascoltate con orecchie e con occhi di prospettiva maschilista, tra proclami, comitati e buone intenzioni. Il maschilismo rappresenta il peggiore dei mali ed è una fase primordiale nell’evoluzione mentale, psicologica e sociale dell’essere umano. Il modello fallocentrico su cui sono fondate la cultura e la civiltà occidentale è in agguato, è dappertutto, è subdolo; è difficile che l’occhio e l’orecchio non addestrati lo riconoscano.

Il libro ricorda le lavoratrici artigiane che filano, cuciono, ricamano e sono anche figlie innocenti, mogli fedeli e madri devote. Racconta i soprusi degli intermediari che procuravano loro il lavoro i quali, portati in tribunale e condannati, si vendicarono boicottandole. Vennero riconosciute come “lavoratrici dipendenti a domicilio” e per loro furono fissate le tariffe e i contributi, il riconoscimento e la tutela del lavoro. Ma siamo ancora a ragionare intorno al senso delle attività femminili, alla indipendenza, all’autonomia, alla libertà emotiva e cognitiva, strutturale, delle donne.

Qualche contesto associativo, politico, aziendale, si attiva nel promuovere i diritti delle lavoratrici ed è più avvilente la scoperta di una scelta di facciata che non trova riscontro nella pratica minima della quotidianità; i rimedi, talvolta, sono peggiori della malattia. Non chiedo alcuna garanzia posticcia dell’equilibrio di genere, poco credibile perché non ha radici nel cambiamento autentico, neanche in un orientamento appena desiderato. Né le donne autorevoli, tecniche o politiche preparate, devono dimostrare in qualche modo di esserlo: senza il cambio di mentalità le “prove” di adeguatezza non sono mai abbastanza. Non rilevo una battuta d’arresto o uno scherzo della mia personale sorte negativa: ogni volta ho la conferma che, senza le radici culturali e la conoscenza coltivata, non nasce niente. Gli slogan e le frasi ad effetto di chi sa chi, l’incantamento ingenuo, il sentimentiring, la tendenza a buttarla sull’emozionale, sul vittimismo, perpetuano inconsapevolmente l’oscuramento e l’indebolimento dell’universo femminile.

La spina è la mentalità, non solo la rappresentanza femminile, giacché anche scegliendo un numero di donne adeguato, possono essere confermate le scelte patriarcali e rigide, i governi classisti e militarizzati, la società con una mentalità paranoica. Desideriamo interessarci di welfare, di contratti collettivi, di asili nido, di congedi parentali, di bonus, di gender gap. Riconosciamo le forme o le dichiarazioni superficiali di femminismo o di una generica attenzione alle donne che inseguono la carriera personale e non la liberazione collettiva, che orientano verso gli ordini psicologici copionali, invece di misurarli e di curarli.

E insistiamo e ricominciamo a dovere vantarci di essere forti, perfette, a sbrigarci, a compiacere, a mettercela tutta. Come comanda il modello maschile. Ci consumiamo in proteste inutili e rassicuranti che puntano a mantenere il potere all’interno dei gruppi, dei sindacati, all’interno, addirittura, di quelle relazioni che, fin dall’inizio del Novecento, vedevano le donne schierate chiaramente da una parte o dall’altra.

L’indignazione è alzare la testa e reggere il confronto ricattatorio di chi rimprovera, sempre paternamente, di non essere coerente con l’accoglienza di tutte le idee.  Ma con il vecchio patriarcato non si discute. Soprattutto quando la divisione fra sfruttati e sfruttatori, dominanti e dominati, insomma, quando la divisione in vittime, persecutori e salvatori, in un ordine naturalmente gerarchico, viene presentato come fisiologico, meccanico e utile.

Infatti, la classe dominante ha le sue retoriche per reprimere le spinte di cambiamento: la più diffusa è provare a radicare la convinzione che i ricchi, i padroni da modello paranoico, servono. Mi applico a curare l’idea che la Vittima, il Persecutore e il Salvatore rappresentino «una legge naturale» (rivediamo Vilpredo, Pareto e Gaetano Mosca di fine Ottocento) e che mantengano, in fondo, equilibri utili e legittimi. Rappresentano, invece, dinamiche psicologiche malsane che finiscono per sostenere i soprusi e le ingiustizie, le manipolazioni e le simbiosi.

L’idea centrata sui valori virili di riuscita, di potere e di forza anche delle donne, sostiene i personaggi del triangolo drammatico come fossero tre furbi che usano le strategie per cambiare, senza cambiare nulla, ottenendo benefici minimi e momentanei. E finisce che i furbi, asserviti e dotati di micropoteri, vengano richiesti come fossero i migliori, i più adeguati. Insomma, siamo dinanzi a balletti ideologici. Serve proporci nei comportamenti vittimistici, di sudditanza e di bisogno nella misura in cui all’altro serve il paternalismo e l’assistenzialismo, per mantenere i copioni senza uscita e senza possibilità di trasformazione autentica.

Come fosse un principio universale, ai Salvatori servono i persecutori e le vittime in lite; se no, a chi promettono l’apparente salvezza? A chi vendono i loro prodotti, la negoziazione, la gestione dei conflitti, il successo, la resilienza, l’empatia, il consenso sociale, l’autostima, la vincita perpetua? Solo mantenendo i giochi psicologici, vengono ristabiliti e potenziati la diseguaglianza della cittadinanza, l’ordine proprietario e i meccanismi regolativi.

Il benessere proposto è truccato: l’accordo fra tutti, la risata, la visibilità da like, il presenzialismo ad ogni costo, la strumentalizzazione, la decontestualizzazione, le grida, i pianti, le sfide, i rancori richiamano i giochi psicologici e sociali della classe dominante. Come fosse nell’interesse di tutti essere competitivi e vincere le colluttazioni, mortificare ed escludere chi non dichiara guerra e non si difende. Ritengo che la frustrazione e l’indignazione siano ricchezze interiori come risorse di trasformazione e di rivoluzione. L’ansia non è un difetto personale, è un fenomeno sociale. A dover essere eliminate sono la volgarità e la violenza del sistema, non il dolore e la preoccupazione personali, anche delle persone che incontro nella mia attività di psicologa.

Fino a pochi anni fa, io ho creduto in ciò che mi raccontavano, poi ho scoperto, camminando con fatica, che non era vero. E che la nemica ero io. Di volta in volta, scoprivo che quel programma di scrittura, di conferenza, di formazione, di lavoro in gruppo, era una mistificazione, una menzogna per lasciare tutto com’era. Richiedevano la mia consulenza, sì, per continuare a fare i loro interessi, anche ideologici. Mi ritrovavo ridotta nella condizione di non dover ostacolare gli individui dominanti, maschi e femmine, perché io stessa e la parcella potessimo sopravvivere. È un’identità di ceto, più che di classe, dice Nadia Urbinati, a pag.22, nel numero 11 della rivista Jacobin. E vale la pena, assieme alle letture psicologiche, seguire il pensiero democratico liberale contemporaneo e le teorie della sovranità che la filosofa propone.

Nelle attività lavorative, solo con la formazione sistematica, circolare e onesta di coscienza e di consapevolezza, la rosa rossa, davvero, può segnalare l’amore che inizia da sé e crea comunità professionali sempre più allargate.

Le riflessioni che propongo tengono in conto le letture:

  • Ester Rizzo, Le ricamatrici, Navarra Ed., 2021
  • Nadia Urbinati, Marco d’Eramo, Dominanti e Dominati in Jacobin, Il nemico invisibile, N.11/2021, pp.16/25
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