Ph. Fonte Silvia Meo

La strada verso casa e verso il corpo

Ph. Fonte Silvia Meo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E così ho vissuto come un’ingorda macchina senza respiro programmata per sfide e raggiungimenti. Poiché non volevo e non potevo abitare il corpo o la terra, non potevo riconoscere o sentire il dolore (Ensler, p.14)

In una visione primordiale, il mondo degli esseri umani è diviso in maschi e femmine, due sessi ben distinti. Il sesso biologico richiama il patrimonio genetico, gli organi genitali e in generale il quadro ormonale. Falsamente qualcuno pensa che l’orientamento sessuale sia biologicamente determinato. Anche nella struttura mentale e culturale del secolo in corso, ciò che non rientra in un binario o nell’altro deve essere normalizzato, classificato, rinchiuso in modelli. La scienza parla poco delle differenze legate al sesso biologico e al genere e, al contrario, di identità di genere e di orientamento sessuale se ne parla in superficie, fra rivendicazioni, proclami e slogan.

Il corpo umano, come una cartina geografica, raccoglie storie, mancanze, illusioni, aspettative, limiti e godimenti. Qualunque tema legato alla fragilità del corpo, al dolore, alla malattia è considerato antisociale e io stessa, distinguo i corpi più o meno socialmente accettati. Nel mondo del lavoro, nei processi di selezione, la riflessione proposta ha ancora più peso. Per anni, ho costruito questo mio corpo e ho lavorato fino all’espressione odierna che il dolore cronico ha contribuito a rendere visibile. Così, ho trovato “la strada di ritorno al mio corpo e alla Terra” (Ensler, p.14)

Il dolore non serve a sfidare la sorte mostrando quanto siamo capaci, forti, di più degli altri. Neanche come alibi per sopravvivere come individui già spenti. Né per rassegnarci a pagare pegni, debiti di altre vite passate. Non serve a essere ricattati dalla promessa di un paradiso futuro oppure – la peggiore di ogni credenza – pre-visti, adocchiati e maledetti da un dio affamato del dolore di specie umana.

Leggo che gli esseri umani possono usare circa il cinquanta per cento del loro cervello per l’elaborazione visiva. Scrive Spiegel che “se bombardiamo gli occhi con visioni spettacolari e dinamiche, quei tre miliardi di scariche neuronali al secondo rimbalzeranno attraverso metà del cervello per elaborare il travolgente carico di dati visivi”. Brennan Spiegel, gastroenterologo e ricercatore dell’ospedale Cedars-Sinai, dirige il progetto accademico sulle terapie basate sulla realtà virtuale. Il dolore è chiamato cronico quando persiste per almeno tre mesi. Gli oppioidi, le terapie farmacologiche vengono sostituiti dall’utilizzo della realtà virtuale. Potenzialmente, potrebbe essere creato un nuovo settore sanitario per alleviare l’ansia e la depressione o per la riabilitazione dopo un ictus. Omero Liran è uno psichiatra e un programmatore autodidatta che crea mondi virtuali al fine di curare le persone. Attraverso l’utilizzo di un visore nero il/la paziente viaggia in tutti i laghi e in tutti i luoghi. Le suggestioni favoriscono le pupille meno dilatate, la frequenza cardiaca diminuita, e il/la paziente raggiunge uno stato pervasivo di benessere generale.

Continuo a studiare ma, dinanzi ad alcune applicazioni delle neuroscienze, mi sento ingannata e coltivo il dubbio che non accompagnino efficacemente sulla via del cambiamento comportamentale. Ricablare il cervello è un’intenzione né morale né etica.

È proprio ciò che serve, usare la realtà virtuale per coinvolgere il cervello, per esempio, nel controllare un aereo e nel guardare dall’alto in diverse direzioni?

L’apprendimento, anche del giusto ritmo respiratorio, riguarda il cambiamento di copione e invita a smettere, semmai, di guardare dall’alto e di tenere tutto sotto controllo. Il ricorso alla realtà virtuale è rischioso nella misura in cui rafforza il vecchio copione umano che, anche nella sofferenza, rivendica l’onnipotenza.

Nella situazione reale di ogni persona, il dramma è cambiare vita, non necessariamente trovare a tutti i costi le soluzioni per riprendere i ritmi precedenti. Quando si prova un dolore cronico la parte del corpo che fa male può essere intatta e perfino sembrare sana. A essere alterata è l’area del cervello che corrisponde alla sua posizione anatomica. Per questo, rifiuto ogni sistema che, rozzamente, velocizza e procura le modifiche.

La trasformazione è lenta ed è possibile con me, tutta intera, non senza di me. Oltre agli aiuti del farmaco e della tecnologia, il pensiero psicologico dà  forma a nuove modalità di vita e contribuisce alla trasformazione dei modelli di umanità meno perfetta e anche meno suggestionabile, meno asservita ai poteri esterni: un’umanità più dolorante e mortale. Libera. Gioiosa.

Dinanzi al dolore, desidero capire, non ho un problema da risolvere. Senza il lavoro sulla mentalità, sulle espressioni di sé, la realtà virtuale rimane un inganno. Ipotizzo che il dolore cronico, in uno stato diverso di salute, oltre che essere fregato e, forse, anche guarito con il farmaco o con il visore, va accolto come parte fondante della vita. Noto, invece, che ancora una volta il cambiamento segnato dagli studiosi americani deve essere indotto dall’esterno, e si conferma paternalistico ed emozionale.

La somatizzazione non è una difesa, non è un disagio psicologico in forma di sintomo, essa esprime la norma e la natura. Esiste un altro modo per attraversare la vita che non sia la somatizzazione? Il cammino che intravedo non è clinico né scientifico: è spirituale, è psicologico. Il corpo dolorante è me stessa nella restanza. La ricerca valuta l’assunzione di un diverso modello di vita, al lordo di tutto, malattia e morte comprese.  Da un verso, superiamo la sentenza che siamo nati per soffrire, ma, dall’altro, evitiamo di trattare il dolore come il male da estirpare per riprendere il potere sulla vita, falsamente considerata vera. La normalità della esistenza umana comprende i passaggi dolorosi.

Mi rilasso e ripenso a una qualità di vita in età diverse, in situazioni economiche, sociali, psicologiche diverse. Poi, vale tutto il sollievo offerto dai farmaci, evitando le epidemie da oppioidi, dalle tecnologie e dagli strumenti virtuali. Il lavoro, come sempre, è culturale, su un modello e su una mentalità che pretendono ancora oggi una esistenza basata sul prodotto e sul consumo e sull’indebitamento dovuto al possesso sfrenato.

Nella visione patriarcale, ben espressa nel ricorso ai mondi virtuali, ciò che conta è il futuro, è la produzione, è il risultato previsto.  Non voglio essere lì, nel mondo virtuale, desidero essere nella realtà, nel qui e ora: il senso sano dei ricordi è che scalavo le montagne e camminavo chilometri in città sconosciute. Adesso, grata al passato, è adesso. Il dolore cronico ha bisogno di tempo per essere capito e integrato. La prostrazione del corpo, ricorda Ensler, in molte fedi, è posizione di riverenza, io aggiungo, è orientamento al riconoscimento della realtà umana.  Ho lottato troppo, sono rimasta troppo sul pezzo, ho corso troppo… Attraverso il dolore, tutto rimane, si svela e accade: la lotta e le persone in cui credo, i testi su cui rifletto, i viaggi che desidero, le situazioni da risolvere.

E sto già meglio.

Da Eve Ensler, un testo illuminante che ricopio integralmente e che dedico alle ragazze in cammino, in comunione, con differenti stati di salute:

La volata non significa avere o prendere o comprare o acquisire. Significa lasciare tutto e dare più di quello che pensavi di avere, dare il doppio di quello che prendi. Quello che sta arrivando non assomiglia a niente di quello che abbiamo conosciuto prima. La vostra morte, la mia sono necessarie e irrilevanti e inevitabili. Non abbiate paura, no, la morte non sarà la nostra fine. L’indifferenza lo sarà, la dissociazione lo sarà, il danno collaterale, lo scioglimento delle calotte polari, la fame infinita, gli stupri di massa, la ricchezza grottesca. Il cambiamento arriverà da coloro che sanno di non esistere separati, ma di essere parte del fiume. Se vuoi superare la tua malattia, aiuta qualcuno che è malato. Se vuoi dimenticare la tua fame, nutri un amico. Avete paura dei germi e accumulate raccolti, ma non vi salveranno, né vi salveranno le vostre belle case e i vostri villaggi recintati. L’unica salvezza è la bontà. L’unica via d’uscita è la cura. La volata finale arriverà dalla terra, dalla Terra. Si solleverà come una tempesta di sabbia. Apparirà all’improvviso dagli angoli delle strade e dai quartieri popolari, dalle favelas e dai luoghi invisibili dove vive la maggior parte del mondo. Perché le strade sono vive, e le donne che trasportano sacchi da novanta chili sono vive e danzano. La volata finale sarà delle ragazze. Delle ragazze. Delle ragazze. È in loro ed è loro. Questa volta spazzerà via tutto. E chi di voi può vivere senza, sopravviverà. Quelli di voi che possono essere nudi, senza un conto in banca, un futuro certo o perfino un posto da chiamare casa. Chi di voi può vivere senza e trovare un senso qui, qui, ovunque sia qui.  Sapendo che l’unica destinazione è il cambiamento. L’unico porto è dove stiamo andando. La volata vi sottrarrà quello di cui pensate di avere bisogno o che desiderate di più, e quello che avrete perduto e come lo avrete perduto determineranno la vostra sopravvivenza.

 Riferimenti biblografici

  • Eve Ensler, Nel corpo del mondo, il Saggiatore, 2015
  • Internazionale, n.1469, 15 luglio 2022, Helen Ouyang, Creare mondi virtuali per ridurre il dolore cronico, pp.64/71

 

 

 

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