Non il dovere prima di tutto, ma prima di tutto la vita! Come ogni essere umano, devo avere diritto a dei momenti in cui posso farmi da parte e sentire di non essere solo un elemento di una massa chiamata popolazione terrestre, ma di essere un’unità che agisce autonomamente.
Stig Dagerman, Il nostro bisogno di consolazione, Iperborea, 2021, pag.18
In questo periodo, l’invito è a recuperare la propria nascita, a ritrovare l’umano nei pensieri, nei gesti rituali, nei sentimenti affinati con la riflessione. Smetto di oggettivare la persona e di soggettivare la patria, smetto la voglia mortifera della testa mozzata del nemico piantata sul palo. Nelle parole, scelgo di risparmiare il sangue, a favore dell’autorità di ognuno/a, riconosciuta nella relazione di scambio. Desidero la testimonianza come pedagogia, la ricerca come incontro, la divisa come antidoto alla vanità.
Non possiamo nascere di nuovo, nascere da zero; l’augurio è di nascere presso di sé, più intimi a sé. Il lavoro è riappartenerci, con la memoria, con la lettura diversa dei ricordi, con la scoperta della forza interiore, con il riconoscimento della realtà come guida.
Stig Dagerman, scrittore svedese che apprezzo, è convinto che il bisogno di consolazione dell’essere umano non possa mai essere soddisfatto. È vero, aggiungo che la coscienza della malattia e della morte possono aprire e illuminare la quotidianità, se riconosciamo la potenza dell’alterità. Voglio dire che provvedere alla creazione di me come servizio e come comunità è la cura all’insopportabile, è il sollievo alla ferita, è la risoluzione. La disperazione esistenziale di Dagerman e nostra, la disillusione, la precarietà, la violenza strutturale esistono e costituiscono la realtà. Ci conviene curare l’ossessione più che di vincere, di veder perdere, «perché chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà».
La consolazione è imparentata con il solstizio, con il calore e con la luce del sole; dies natalis solis invicti, è la festa di rinascita del sole, è il privilegio di un Dio che sceglie di rinascere umano. L’evento è astronomico, religioso e psicologico: la notte, proprio nella sua massima oscurità, cede alla luce.
Il testamento spirituale, scritto nel 1952, del nostro giovane autore suicida, svela che la libertà e la felicità anelate non si misurano a partire dalle prestazioni e dallo sguardo esterno di un giudizio intransigente che, necessariamente, prevede una storia altrui, differente. Benedire ciò che siamo, senza essere violati/e, nel contesto in cui viviamo, che è raggiungibile e può essere sottratto al dominio, attraverso le sciagure e le beatitudini. Il desiderio sotterraneo espresso nel testo di Dagerman è la bellezza di una comunità di viventi, nell’amarezza e nel disgusto di incomprensioni profonde.
Non considero il Natale solo una data, ma un processo di cambiamento, anno dopo anno, di letture nuove, di formazione in clandestinità, come un eremitaggio, lontana dai funzionari dominanti, dai parassiti e dai cortigiani. Mi impegno a recuperare le ragioni della nascita e il respiro dei corpi liberati assieme. Ad avvertire sempre l’impatto simbolico poco rassicurante dell’uno/a al comando che non preveda benefici per tutte e per tutti. A riconoscere la volontà potente unicamente come responsabilità verso la comunità. A essere pacificata con me stessa più che a trionfare nella competizione fallica. La consolazione della nascita è, in fondo, il bene degli sguardi, delle voci, dei doni.
A me non basta sapere che ogni cosa può essere scusata in nome del servo arbitrio. Ciò che cerco non è una scusa per la mia vita, ma il contrario di una scusa: l’espiazione. Mi coglie infine il pensiero che qualsiasi consolazione la quale non tenga conto della mia libertà è ingannevole, non è che l’immagine riflessa della mia disperazione. (pag.13)
Cos’è allora il tempo se non una consolazione perché niente di umano può essere perenne? E che consolazione miserabile, da arricchire solo gli svizzeri! Posso starmene seduto davanti al fuoco nella più sicura delle stanze e, all’improvviso, sentire la morte che mi accerchia. È nel fuoco, in tutti gli oggetti taglienti che mi stanno intorno, nel peso del tetto e nella massa delle pareti, è nell’acqua, nella neve, nel calore e nel mio sangue. Cos’è allora la sicurezza dell’uomo se non una consolazione, che riesce solo a ricordarci ciò che vorrebbe farci dimenticare! (pag.14)