suicidi

Contro lo statuto di vittime

 

 

 

 

 

 

 

 

Ph.Antonella Aresta

Si sono suicidate in carcere, Susan Jhon, in sciopero della fame, e Azzurra Campari impiccandosi, come due mesi fa Graziana Orlarey e le altre e gli altri, 43 persone, dall’inizio dell’anno.

Beffando anche la più stretta sorveglianza, chi ha deciso di uccidersi, lo farà. L’esperienza carceraria, per il solo fatto di esistere, fa fuori le persone. Ritengo fondamentale che le detenute costruiscano una visione lucida della situazione e della pena da scontare. Se una donna organizza la cella come una casa e le compagne come una famiglia e le poliziotte penitenziarie come i genitori affettivi e critici positivi e negativi, si convince che è quella la normalità e psicologicamente non ne esce più.

Il suicidio ci invita a cambiare lo sguardo su una persona che, con l’ultimo gesto, riprende su di sé l’onere di una soggettività attiva e non passiva. Oltre le logiche riformiste da una parte o abolizioniste dall’altra, con cui inutilmente ci schieriamo, non vogliamo perdere l’opportunità di continuare a ragionare intorno all’ombra, alla spazzatura che l’umanità produce, proprio perché luminosa.

Promossa da responsabili pensanti, ho condiviso, negli anni della formazione con la polizia penitenziaria, tentativi, conversazioni timide e trattenute sul rischio suicidale, considerazioni che ora desidero riavviare in modo esplicito e diretto. Sono convinta che se siamo libere possiamo assumere la responsabilità del cambiamento. Neghiamo, per onore di realtà e di verità, il modello repressivo e l’idea conservatrice che condannano la presunta lassità. Non siamo mai riuscite/i, nei casi che ricordo, a trasformare l’esperienza individuale in promozione comunitaria e in valore collettivo, voglio dire, in sapere politico.

L’impegno è perlomeno continuare a parlarne e a riconoscere le differenti strade: la depenalizzazione di alcuni reati incarcerando meno persone; l’introduzione di misure diverse dalla carcerazione, l’educazione sociale nelle scuole. L’impegno è di prevenzione e di formazione, meno dentro, e di più fuori dall’istituto penitenziario, rispetto a una impopolare rivoluzione di mentalità che curi l’idea comune di uno Stato che debba punire e segregare.

Per controllare tutto e sempre, l’organizzazione carceraria tende a mantenere l’individualismo delle persone recluse, a contrastare la capacità di interazione collettiva, anche attraverso la deprivazione sensoriale, mortificando le possibilità di autogestione e di indipendenza. La mancanza di lavoro e la difficoltà a comunicare con l’esterno, isolano e favoriscono la denutrizione psicologica di ogni detenuta. Il luogo comune recita le ragioni della sicurezza e la generica convinzione che non ci si può fidare delle detenute, manipolatrici che per ottenere qualcosa agiscono in maniera strumentale e opportunistica. In molti casi, sono convinta che sia così, ma le proposte per cambiare il sistema devono andare avanti, conoscendo i rischi e i pericoli. Il dovere di reclusione delle donne ha una doppia valenza morale: la punizione per il reato commesso si aggiunge alla punizione sotterranea e durissima di aver mancato i valori di genere, le retoriche per cui le donne, specie quelle poco scolarizzate e ai margini, debbano naturalmente essere sensibili, materne, infine ragionevoli, un po’ matte, un po’ puttane.

E, allora, i diritti diventano concessioni previste dalle regole del carcere, in strutture mentali che rilanciano il binomio premio-punizione. Fra l’immagine della donna-vittima e quella della donna-reagente, uniche identità di detenute, guardiamo al modello di un cambiamento atteso, fra l’adattamento e la ribellione, che è possibile, considerando l’esperienza detentiva come un passaggio, attraverso la formazione individuale e in gruppo, nominando i sensi di colpa che sono devastanti, coltivando la presenza e la resistenza, costruendo la coscienza di sé e dell’azione compiuta.

Sono contraria alla vittimizzazione della donna in carcere e credo all’assunzione della responsabilità rispetto al reato. Però, il contesto sociale, dentro e fuori dall’istituto penitenziario, ha l’obbligo di offrire la libertà e la possibilità di cambiamento, con l’istruzione e con il lavoro. Costruire la libertà significa apprenderne la perdita. La dis-culturazione delle donne, la subcultura carceraria, le allontana da ogni illusione di reinserimento nel tessuto sociale. E, soprattutto, viene liquidato il lavoro doloroso, profondo e lungo di coscienza di sé, di presa in carico dei sentimenti, dei pensieri, delle azioni commesse.

Loro dentro e noi, nelle gabbie di fuori, nell’illusione di una cittadinanza in cui le persone perbene e permale rimangano in due schieramenti fissi e distanti. Psicologicamente, “lo statuto di vittima” è ambito da ogni essere umano, in ogni situazione, dentro e fuori dal carcere: così evitiamo l’apprendimento faticoso del pensiero ampio e comunitario, iniziando da sé. Conviene all’umanità intera smettere di voler difendere i buoni dai cattivi, le vittime “vere” dai predatori “veri”: per una migliore qualità di vita l’educazione e le trasformazioni sono costitutive e non prevedono soltanto la guerra al male, la guerra perduta, in fondo, contro se stessa.

In una certa prospettiva, il carcere è percepito come un microcosmo a parte, regolato da dinamiche interne, in cui detenute e agenti vengono assorbiti/e dalla prison culture. Con la legge del 1975 e la legge Gozzini del 1986, dal carcere chiuso e punitivo si è, nella visione, passati al carcere aperto, il carcere della speranza, volto alla riabilitazione e al trattamento individualizzato. Ma il mondo esterno, anche dove è possibile ed è realizzato lo scambio virtuoso e osmotico, c’entra poco e non è preparato ad accogliere come parte di sé chi sconta una pena. Dentro, le funzioni rieducative sono spesso minime, le attività trattamentali sono occasionali e, fuori, mancano le possibilità lavorative certe e dignitose. E manca la cultura dell’appartenenza rispetto a un corpo unico sociale che si può ammalare e guarire. Lo stigma e la ghettizzazione rimangono per tutti coloro che hanno scontato la pena; per le donne, di più: per molte, il carcere come prodotto sociale può rimanere il luogo-casa protetto perché almeno conosciuto, certo più accogliente della società esterna, basta sottomettersi alle regole.

Per noi, il numero, minimo rispetto agli altri, dei grandi criminali costruisce la giustificazione e la fortificazione della convinzione salvifica e risolutiva dell’istituto penitenziario. Abbiamo la percezione di sentirci più al sicuro – ascolto ancora chi dice: “per garantire l’ordine pubblico” – perché qualcuno, dentro, sconta la pena: anzi, auguriamo fine pena mai, tolleranza zero per i reati e pure per le infrazioni, mentre pretendiamo di sperimentare il mondo, fra noi disciplinati, eternamente sicuro e ordinato. E le persone di povertà e inconsapevoli psicologicamente – straniere irregolari, tossicodipendenti, senza fissa dimora, malate mentali, giovani violente, mendicanti, prostitute, alcolizzate – si cristallizzano nel processo di dipendenza e di infantilizzazione rispetto alla struttura carceraria.

Le questioni sono molto complesse e bisogna, intanto, continuare a riflettere e a condividere. Dal 2022, anno della pubblicazione, c’è un testo che considero fondamentale per i miei studi, perché ogni persona esca dallo statuto di vittima: onorare i territori della psicologica nei quali rimango nella mia attività professionale, significa non ridurmi a essi, allargando il campo della ricerca. Tamar Pitch, docente di filosofia del diritto e di sociologia del diritto nell’Università di Perugia, studia la questione criminale, i diritti fondamentali, il genere del e nel diritto.

Per chi legge, ricopio qualche pensiero, sapendo che torneremo a riconsiderare il libro, in altre sue parti, intorno a molte questioni, per l’impostazione generale offerta.

“Negli ultimi trent’anni o giù di lì la giustizia penale, classista e razzista, è invocata come la soluzione per tutti i problemi sociali e politici… succede che anche movimenti collettivi nati per ampliare la dotazione di diritti di ciascuna e ciascuno, per combattere discriminazioni e disuguaglianze, assumano lo statuto di «vittime» e finiscano per condividere la retorica punitivista dominante.”

“Lo statuto di vittima richiama la logica e il linguaggio del penale: ci si definisce vittime o si viene definiti vittime sulla base di qualche torto o danno subito (e, in seguito, potenzialmente da subire) da parte di attori individuati o individuabili cui si imputa l’esclusiva responsabilità dei danni o torti. è evidente la differenza con il termine «oppressi»: quest’ultimo infatti richiama una situazione complessa che coinvolge l’intera biografia dell’individuo e lo accomuna ad altri individui nella stessa situazione, diciamo così, strutturale. «Vittima», viceversa, evoca un’azione singola da parte di singoli, sulla base della quale ci si può associare ad altri individui che hanno subito, o potrebbero subire, la stessa azione… Se lo statuto di vittima diventa uno statuto ambito, ne deriva che vi sarà conflitto su chi sia la vittima più vittima, la vittima davvero meritevole. Ciò che è stato chiamato il paradigma vittimario…”

“Le vittime «vere», dunque, sono soltanto quelle che hanno fatto di tutto per non diventarlo: hanno preso precauzioni, non si sono andate a ficcare nei guai, non hanno corso rischi reputati non necessari. Ma, soprattutto, corrispondono allo stereotipo della buona vittima condiviso da media, giustizia penale e forze dell’ordine. Rivolgersi alla logica e al linguaggio del penale per vedere riconosciute le proprie ragioni o addirittura la propria soggettività politica, tuttavia, eleva precisamente la giustizia penale, nazionale e internazionale, a soluzione principe di tutti i problemi, a scapito della politica… Ciò che si rischia è non solo un panpenalismo, ma anche la reiterazione senza fine dello statuto di vittima, laddove il processo penale non può che produrre delusione rispetto alla propria aspettativa di risarcimento narcisistico assoluto…”

“Definisco femminismo punitivo le mobilitazioni che, richiamandosi al femminismo e alla difesa delle donne, si fanno protagoniste di richieste di criminalizzazione (introduzione di nuovi reati negli ordinamenti giuridici) e/o di aumento delle pene per reati già esistenti… è ormai l’autoassunzione dello status di «vittima» che pare essere il modo principe di garantirsi la possibilità di emergere e venire riconosciuti come attori di conflitto…”

Riferimento bibliografico:

Tamar Pitch, Il malinteso della vittima: una lettura femminista della cultura punitiva, Ed. Gruppo Abele, 2022. Edizione del Kindle.

 

 

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