Stress da esami: realtà o leggenda metropolitana?

Pubblicato sul mensile PRIMOPIANO – agosto 2014

 

Accetto l’invito a proporre una riflessione sullo stress da esami di stato, adesso che gli ultimi diplomati si godono spezzoni di vacanze.

L’ipotesi: piuttosto che scrivere di stress legato agli esami e agli studenti, scelgo di considerare le ansie genitoriali e familiari come sintomo di veri e propri disturbi culturali legati alla mentalità, ad una visione della vita e dell’apprendimento oggi non più adeguata.

In fondo, ogni situazione di malessere ci segnala il momento di cambiare prospettiva rispetto ad una situazione. A discapito di film, romanzi e canzoni che provano a riconfermare il copione dell’esame finale come momento epico ed eroico che necessariamente divide il <prima> incolto dal <dopo> maturo.

Occupandomi di Gestione di Risorse Umane nelle aziende, confermo che la selezione e la valutazione della persona sono momenti ricorrenti fondamentali in un percorso professionale. Apro, invece, discussioni sulle modalità, sugli stati d’animo che rimandano a innegabili convinzioni rispetto alla educazione e alla produttività nel mondo del lavoro.

Lo stress da esame è approvato socialmente. Diviene distintivo di giovani, in particolare quelli che frequentano scuole considerate “importanti”. Sono loro che maggiormente assumono l’idea “viziata” dello stress attraverso determinati ordini psicologici, inconsapevolmente inviati dalle figure genitoriali performative. Gli studenti e le studentesse registrano che per “andar bene”, per essere riconosciuti/e nel contesto sociale devono essere forti, perfetti/e, devono mettercela tutta, devono compiacere.

Tipologie variegate di ragazzi prendono forma: quelli  ai quali non importa nulla e  gli altri che soffrono di disturbi diversi legati all’alimentazione, all’umore, al sonno; ragazzi come geni incompresi e quelli visti come eredi nella parte marcia della dinastia familiare, rappresentano gli estremi di una cultura che allinea gli esseri umani come prodotti più o meno riusciti di un popolo occidentale vincente e telegenico a tutti i costi… quasi pronti per un reality qualsiasi.

Tre assunti di base, come inizio, per avviare riflessioni antropologiche rispetto alla crescita dei cuccioli d’uomo i quali sono, nella specie animale, i più bisognosi di tempo per crescere.

Il primo pensiero: come figure genitoriali iniziamo a riconoscere e a ridiscutere come virtù, la paura di non riuscire e di non essere i primi, il successo valutato sempre rispetto all’altro, mai per se stessi, l’efficienza e l’efficacia, la necessità di rientrare in circuiti esclusivi di potere (in verità, solo escludenti), di sforzarsi di assomigliare a un modello esterno glitterato. Tutto da ridiscutere, a favore del privilegio di essere ciò che ciascuno è e di custodire con determinazione e gentilezza la propria crescita in ogni tappa.

Il secondo pensiero: l’apprendimento di un essere umano, continua ad accadere coltivando la potenza, l’energia come interesse verso l’esistenza, la protezione di sé, il permesso alla curiosità, il perdono rispetto al possibile fallimento e ad ogni segnale di limite della persona stessa.

Il terzo pensiero: in una relazione di reciprocità, figure genitoriali e giovani studenti sono motivo di apprendimento le une per gli altri: ci trasformiamo tutti o nessuno cresce. Questi pensieri non manifestano alcun cedimento rispetto alla serietà, alla fatica, alla disciplina che qualunque apprendimento, in qualunque campo, esige. Semmai,  questi liberano dai processi mentali che obbligano i nostri figli a pensare alla vita come un sacrificio, al lavoro come una lotta, alle relazioni solo come intrighi fra furbizia e manipolazione.

Allora, la proposta è conservare lo stress come categoria medico-psicologica da considerare in altre occasioni. Al contrario,  vale più che mai  l’invito ad accompagnare gli studenti attraverso i cinque anni di scuola superiore, mentre si costituiscono persone, ad accudirli con discrezionechiedi a me qualora avessi bisogno – con affetto conta su di me, sempre – e ironia – come suggerisce un personaggio di Finale di partita di Samuel Beckett, “Sei sulla Terra, non c’è cura per quello”.

 

Editing: Enza Chirico

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